Un libro di Pierangelo Sequeri
Sezione: Cultura
Articolo di: Attilio Baio
“Imparare a parlare bene, a leggere bene, a raccontare bene”. Sembra una faccenda per bambini ai primi giorni di scuola, una questione peraltro anche un po’ retorica in un’epoca dove tutti parlano di tutto, nessuno più legge nulla e i racconti fluttuano senza lasciare traccia tra i fumi dei bar e i post virali dei social networks. Cosa ci sarebbe da imparare? In fondo – è il grande messaggio che ci arriva ogni momento – ciò che conta è la capacità un tempo si diceva di “bucare lo schermo”, di sapersi vendere, di moltiplicare i contatti; non importa il come, importa la cosa, il fatto di comunicare. Parola, questa, spesso travisata, purtroppo. Comunione e comunicazione sono parenti molto strette, ma quella che oggi passa per comunicazione, lo vediamo tutti, è sì un’azione, ma di comunione ne genera un po’ poca.
Forse allora è buona cosa spostarsi su quel “bene”, che dice la qualità di queste azioni tipiche anzi esclusive dell’essere umano. Una qualità che non si misura nel numero di likes o di visualizzazioni e per questo forse sfugge un po’ ai radar della nostra attenzione. Non capita spesso, ma quando incroci lo sguardo di una persona (a me è capitato in un paio di classi di adolescenti e con alcuni detenuti) che è rimasta veramente colpita dalla lettura di un racconto, in senso quasi letterale come da un pugno in faccia, vedi un lampo di luce nuova, qualcosa che non era mai esistito prima. Allo stesso modo si genera qualcosa anche in chi riesce a dare un nome a ciò che prova o ha vissuto, magari liberandosi con fatica dalla trama soffocante dei “cioè, tipo, amo” (sta per “amore” e spesso le ragazze lo usano per rivolgersi a chiunque – dal compagno di banco all’amico al fidanzato – si trovi nel raggio della loro voce): insomma non basta parlare, leggere, raccontare, bisogna farlo bene.
A proposito di amore. Pierangelo Sequeri, uno dei più grandi teologi viventi, afferma che l’uso eccessivo e scriteriato ha eroso la magnificenza e la sensibilità di questa parola, col risultato tragico di averla resa insignificante: “dal cocker alla suprema sostanza metafisica” – cito a memoria – tutto è indistintamente amore. E guai a contestarlo.
Ora, questo non sarebbe poi tanto grave se ad andarci di mezzo non fosse la qualità delle nostre strutture umane, che hanno bisogno di reggersi su fondamenta solide e ben piantate nel terreno. “I materiali fondamentali per la costruzione della casa – della famiglia, della comunità, della società umana – sono le parole che scaldano l’anima.” Parole che, nell’oceano verbale in cui ci troviamo (spesso alla deriva) vanno cercate, curate, cullate come cuccioli che rischiano di prendere freddo e di restare senza latte.
Sono convinto che fra queste strutture umane ci sia anche la fede e che dobbiamo assolutamente ritrovare la qualità delle parole che ascoltiamo e che pronunciamo quando di essa ci occupiamo. In che modo? Leggendo, anzitutto. Non è necessario essere topi da biblioteca o premi Nobel, esistono dei piccoli gioielli, accessibili a tutti, ai quali si può dedicare qualche scampolo di tempo, se lo si vuole e lo si ritiene importante.
Un gioiello di assoluto valore è “Lo sguardo oltre la mascherina”, un libretto che raccoglie gli articoli che Sequeri ha scritto su “Avvenire” a partire dall’inizio della Quaresima fino a Pasqua del 2020 e quelli che aveva dedicato al tema della misericordia, nell’anno del giubileo 2015-16. Ogni
articolo dura poche pagine e si legge senza particolari difficoltà, ma ha il pregio (tipico dei grandi) di resuscitare le parole che abbiamo sentito mille volte e per questo ci sono diventate addirittura indifferenti, restituendo loro un respiro e un gusto nuovo, fresco, fragrante. Al punto che ti ritrovi
in maniera del tutto naturale a congiungere finalmente (o a desiderare fortemente di farlo) la fede alla vita concreta, fatta di cose e avvenimenti che, a uno sguardo superficiale, non entrerebbero mai in chiesa e invece costituiscono la storia in cui Dio tesse misteriosamente la sua trama. Non
senza la nostra complicità, se ci educhiamo a diventare capaci di credere con intelligenza e di accettare con coraggio che “siamo responsabili, di fronte alla tenacia della misericordia di Dio, delle nostre passioni per la giustizia dei legami umani.”
Abbiamo bisogno di confrontarci con i grandi, se vogliamo diventare grandi. E non è mai solo questione di carta d’identità. “Impariamo a nutrire, ogni giorno, sguardi buoni e diventeremo, ogni giorno, migliori. E anche più belli. Diventeremo fieri di essere umani, e non isterici e incattiviti di non essere sovrumani.”